Per amore, solo per amore

Una festa da fiera
Non vedo altro
Stellette e luci
Bancarelle assaltate
Da moltitudini impazzite
Nel nostro infinitamente piccolo mondo
C’è una tale vastità di spazi
Da lasciarci senza fiato
Da celebrare questo amore minuto per minuto
Ora per ora
Giorno per giorno
E voglio ricordarlo oggi tutto questo
Per fare un dispetto agli altri
Ne santi, ne eroi
Per amore, solo per amore

I luoghi emotivi

I luoghi emotivi sono quelli in cui ci hai lasciato un pezzo di te più o meno grande.
Sono posti che hai attraversato : un tempo solo con l’immaginazione, poi li hai vissuti.
Sono luoghi in cui il mare placa la rabbia degli errori ed una inconsueta pace avvolge i pensieri.
Immagini vive e ricordi si fondono in unica rappresentazione di felicità trascorsa.
E ti resta, forse, l’anima : sola, avvinghiata ad una sofferenza cupa, muta.
In un attesa illimitata si spegne l’ultima luce.

La superficie

Tutto vive e si muove in superficie

Dove il sentire è niente

Emozioni e sentimenti appaiono come cadaveri putrefatti

Si resta immobili nell’anima

Con arti e corpi in movimento disconnesso e disarmonico

In superficie nessuno cerca

Si è tutti di corsa, nessuno che rallenti

Nessuno che ascolta

Le profondità degli abissi fa paura :

Per il buio

Per quello che ci si può trovare

Per la solitudine da affrontare

Per l’assenza di folla insulsa e vuota

C’è chi preferisce restare laggiù in fondo

Nelle sue riflessioni solitarie

Nella verità delle sue debolezze e contraddizioni

Ma almeno vive

Sei andato via in silenzio

Sei andato via in silenzio,
un silenzio a cui non ci avevi abituato
Sai che mi mancano quelle parole
Che eravamo soliti incrociare la domenica mattina
Tra il caffè e le nostre sigarette fumate di fila
Oggi ho incontrato il dolore di tua madre
Un dolore innocente ed incosciente, quanta tenerezza nel viso di una donna che ha perso il figlio per sempre
Avrei voluto abbracciarla ma non ci sono riuscito
Sai, hai anche portato via una parte dei colori che illuminavano tua figlia ma lei è una tipa tosta ed è già in procinto di ridare la tinta dove manca.
Fai buon viaggio a lei ci pensano noi.

A mio padre

Il padre che manca
Manca la presenza
Due anni senza rivederti
Mancano i tuoi abbracci mancati da sempre
Ed il tuo amore ben nascosto dentro
E mai conclamato eppure sapevamo che c’era
Se dicessi che mi andava tutto bene di te
Non sarei onesto intellettualmente
Tutti i giorni mi sforzo per tenere con me quello che di te ritengo sia giusto resti con me
Con altrettanto sforzo provo a cancellare quello che non mi piaceva
Con un lavoro continuo su me stesso
Perché il padre è un riferimento
Che tanto influenza la vita dei figli
Ma sei mio padre e l’unico modo per tenerti in vita è quello di reiterare il ricordo delle cose buone che mi hai trasmesso ma io resto diverso da te.

L’inferno di Macerata

L’inferno di Macerata non è solo quello che ci hanno voluto far vedere.
Non è solo una ragazza morta ed un coglione fascista che spara tra la folla.
È anche e soprattutto l’inferno delle persone tossicodipendenti, sconosciuto ai tanti perché quello è un mondo in cui non si vuole e forse non si può entrare.
Sconosciuto, dimenticato, violento, senza regole, ben oltre ogni immaginazione e ben oltre altri gironi infernali, come per esempio il carcere, luogo che talvolta almeno balza agli onori della cronaca per la possibilità che esiste di fare accedere telecamere e giornalisti che documentino quanto accade.
L’inferno della droga è quello dei disperati senza valori, di chi vende anima, dignità e corpo al miglior offerente, un inferno che ha raggiunto anche i piccoli centri urbani, mentre prima era ad appannaggio delle grandi metropoli.
E sulla strada della persona tossicodipendente è facile e probabile trovare un porco disposto a pagare per il tuo corpo, perché il porco sa bene che hai bisogno di danaro.
Sulla stessa strada la persona tossicodipendente incontra lo spacciatore che, nella stragrande maggioranza dei casi, è più strafatto della persona tossicodipendente ed è armato, se ti va bene ti punta la rivoltella alla tempia mentre aspetti che ti prepara la dose, giusto per marcare la sua supremazia, se ti va male ti ammazza, ancora peggio può tagliarti anche a pezzi.
Perché poi lo spacciatore è manovalanza a basso costo prestata alle grandi organizzazioni criminali, quelle che vogliono che in Afganistan si produca ancora oppio da destinare al mercato nero e che vogliono che la Colombia regga la sua economia sulle piantagioni di coca.
È per raggiungere questo scopo si alleano con i soggetti più impensabili, anche istituzionali, anche governativi di quei governi che sembrano puri come gli angeli.
E su quella manovalanza, su quella forza lavoro prestata al business della droga e disponibile a tutto, bisogna dire che è tutta uguale, dal nigeriano che spaccia a Macerata al quattordicenne che vende morte a Scampia o al rione Traiano o in un qualsiasi altro quartiere a rischio di una qualsiasi metropoli del pianeta.
Quel mondo è così assurdo da sembrare impenetrabile o meglio facciamo finta che lo sia perché è la soluzione più facile; non se ne parla perché non lo si conosce e chi ci ha provato dall’esterno non è riuscito a fornire la giusta dimensione di ciò che accade in quel girone infernale, anzi ha solo alimentato luoghi comuni e bugie.
Quel mondo può raccontarlo solo chi lo ha vissuto ed ha avuto la fortuna di uscirne vivo.

Che Guevara è morto!

Che Guevara non è morto a La Higuera!
Che Guevara muore tutti i giorni
Che Guevara è morto per tutte le volte che lo abbiamo lasciato solo
Che Guevara è morto tutte le volte che era costretto a prendere decisioni più grandi di lui in solitudine
Che Guevara è morto per tutte le volte che, nelle sale del potere amico, abbiamo preferito le coltellate alla schiena in sostituzione del confronto dialettico
Che Guevara è morto per tutte le volte che abbiamo abdicato dal socialismo in favore dell’opportunismo
Che Guevara è morto per tutte le volte che si aspettava di trovarci dietro di lui ed invece noi non c’eravamo
Che Guevara è morto per tutte le volte che non abbiamo condiviso i suoi pensieri e la sua etica
Che Guevara è morto per tutte quelle volte che abbiamo scelto i nostri figli e le nostre compagne alla lotta, mentre lui abbandonava tutti
Che Guevara è morto quando abbiamo preferito aragoste, gamberoni e champagne al panino con la mortadella
Che Guevara è morto tutte le volte che alimentiamo illusioni e speranze ma consapevoli che non vi è nulla su cui costruire
Che Guevara è morto anche per i conti alle Cayman di Bono Vox
Che Guevara è morto per tutte le taglie che la borghesia gli aveva messo sulla testa, sapientemente evitate per la sua disciplina, coerenza nei compiti e la sua lealtà
Che Guevara è morto per tutte le volte che il nostro “personale” non è stato “politico” ed abbiamo preferito scindere le due sfere
Che Guevara è morto per tutte le volte che abbiamo discriminato per il genere, per il colore della pelle, per i modi di pensare
Che Guevara è morto tutte le volte che abbiamo alimentato patriarcato e sessismo
Che Guevara è morto per il populismo, per il giustizialismo, per gli slogan
Che Guevara è morto tutte le volte che egli diceva “NOI” ma noi dicevamo “IO”
Che Guevara è morto per tutte le volte che indicava la luna e noi ci ostinavamo a guardare il dito
Che Guevara è morto perché era solo
Che Guevara è morto per la nostra ipocrisia
Che Guevara è morto per colpa nostra

Ognuno parlava come se fosse un piccolo Lenin

“Brother” era un magazine che faceva capo ad alcuni gruppi di autocoscienza maschile e sul quale venivano pubblicati i contributi dei vari membri e non solo, l’epoca è quella post 68, primi anni 70.

Il brano che segue è stato estratto dai numeri 11 e 12 e tratta un argomento quanto mai spinoso per chi, come me, si identifica con una determinata ideologia politica che viene poi smentita nella pratica quotidiana dai suoi stessi componenti.

Come dicevo il brano risale ai primi anni settanta, tuttavia lo trovo attualissimo nel senso che in molte situazioni simili a quelle descritte, mi sono sentito perfettamente uguale alla descrizione che fa il protagonista.

Certamente non accadeva sempre così, non accade sempre così: vi sono gruppi di “compagni” che riescono ad avere pratiche più libere e sane, soprattutto tra quelli più giovani.

Resta poi il dubbio di cosa succederà con il passare degli anni, come questi giovani verranno plasmati dal potere maschile, dal patriarcato e, quindi, come modificheranno i loro comportamenti.

Così come è abbastanza evidente che, quanto più ci si inoltra in gruppi di persone a tenuta stagna sotto l’aspetto del pensiero ed intendo i vari dogmatismi anche di natura ideologica/politica, si perdono di vista molti aspetti della mente umana, le varie sfaccettature e sfumature di vedute, in altre parole si perde in termini di libertà personale, identificando il proprio essere con quel pensiero in modo eccessivamente restrittivo.

Di una cosa sono certo, per arrivare ad una grado di maturazione vero, davvero sentito e che riesca a vedere l’oppressione che il patriarcato impone, c’è bisogno di sentirlo profondamente dentro, c’è bisogno di prendere coscienza di quello che si è e di quello che non si vuole essere, volere intraprendere questo percorso di liberazione attraverso l’auto imposizione di comportamenti che non si è ancora disposti ad accettare è assolutamente improduttivo, buona lettura.

Sinistra maschilista*

Una sera, due di noi di Brother parteciparono a San Francisco una riunione indetta da un gruppo promotore della manifestazione del 22 aprile contro la guerra e contro l’imperialismo; ci avevano chiesto di mandare gente, dato che avremmo tenuto un piccolo “stand” all’esposizione popolare che si teneva in quel giorno.

Nella sala c’erano dalle cinquanta alle settanta persone, per lo più uomini bianchi “normali”.

L’atmosfera prima del meeting era molto professionale e ho sentito subito una mancanza di calore e di affiatamento. Personalmente, mi sentivo al di fuori di tutto questo, molto teso e misurato nei gesti, ma pensai che probabilmente si trattava del fatto che era la prima volta che venivo a San Francisco. Durante tutta la riunione, mi sentivo sempre più teso, a disagio ed estraneo. Mi sembrava che mancasse qualcosa ma non capivo che cosa e continuavo a pensare che forse erano la mia paranoia e chiusura personale a impedirmi di partecipare attivamente alla riunione. Avevo paura di parlare e volevo andarmene, ma il mio amico era fissato a voler rimanere fino alla fine.

Così cominciai a chiedermi:

che cosa mi succedeva?

Perché ero così teso?

Quella gente aveva una pratica rivoluzionaria sostenendo i Vietnamiti?

Che cosa facevo io, per aiutare i Vietnamiti?

Ero ossessionato da problemi di politica sessuale e da Brother.

Non ero forse uomo abbastanza per partecipare alla lotta reale?

Loro lo stavano già facendo e io ero ancora li a preoccuparmi sul come farla. Cominciò a girarmi la testa. In discussione c’era «analizzare la strategia politica e la tattica della manifestazione che si era appena svolta quel giorno a San Francisco». Parlavano uno dopo l’altro, compresi alcuni rappresentanti del terzo mondo, facendo lunghi verbosi discorsi, a volte del tutto incomprensibili.

Ognuno parlava come se fosse un piccolo Lenin. Sembrava che tutti avessero un’analisi completa della situazione attuale. Nessuno esprimeva dubbi o incertezze. Cominciai a fissare gli occhi, lasciando perdere il resto, sul tono e sui modi degli oratori, a pensare che ogni discorso in fondo veniva fatto per dimostrare le qualità di uomo dell’oratore, per confermare la sua ineccepibile identità maschile Ognuno sembrava cosi perfettamente logico. Non c’era scambio di idee, ma solo competizione di ego; quello che ognuno cercava era che la sua analisi venisse accettata dal gruppo come la verità.

Avrei voluto portare le mie impressioni sulla manifestazione, ma non ne ero molto sicuro, così come non lo ero sui punti di forza e di debolezza della dimostrazione. Non mi ci vedevo proprio a questa riunione, a dire: «non ne ero sicuro, ma pensavo che forse…»

Mi innervosivo molto solo al pensiero di dover parlare, come se avessi voluto provare a me stesso che valeva la pena di ascoltarmi. Più la discussione andava avanti, meno volevo parteciparvi. Solo una o due donne presero la parola. Nessuno fra gli uomini che parlavano sembrava rendersi conto che le donne erano, di fatto, escluse dalla riunione.

In molte occasioni donne che alzavano la mano venivano ignorate dal moderatore. Infine, il tutto divenne così noioso che fuggimmo via di comune accordo. Avevo imparato molto poco sulle manifestazioni ma mi ero chiarito un po’ di cose sugli uomini e “la politica rivoluzionaria”.

Spesso durante le “discussioni”, parlavano di unità contro l’imperialismo”.

Ma, confrontata con il loro atteggiamento individualista, la frase sembrava così retorica.

Ognuno si presentava come isolato nella sua immagine granitica, capace di stare da solo, senza bisogno di nessuno; un oratore con un’analisi fredda e difficile.

Mi sembra che questa unità sia una di quelle cose che si devono sentire.

Sentivo che i vari oratori aspiravano a essere loro a definire le cose per gli altri, unità nei termini e sotto la direzione da loro voluti. Ma non credo che avessero più risposte di una qualsiasi delle persone presenti. Si identificavano pienamente con la loro immagine di leaders politici, e questo li rendeva incapaci di ammettere dubbio, confusione, o vulnerabilità. Gli uomini e le donne che non condividevano un simile atteggiamento non sapevano parlare. Erano proprio loro quelli che impedivano l’urni tà a questa assemblea

Avevo anche pensato, poco prima di andarmene, di intervenire nel merito della riunione, ma non mi andava di aggiungere un’altra voce maschile ed ero spaventato all’idea di essere attaccato verbalmente dagli altri uomini. Non mi sembrava giusto, d’altra parte, che dovessero essere solo le donne, tra i presenti, a mettere gli uomini faccia a faccia con il loro sciovinismo maschile.

Dopo aver lasciato il meeting confidai al mio amico di Brother quello che avrei voluto dire e lui mi rispose che sarei dovuto intervenire. Era stato uno sbaglio non accennargli niente in precedenza, avremmo dovuto comunicare di più. Non so ancora se andrò a questo genere di riunioni in futuro, ma se lo farò, cercherò di mantenermi maggiormente in contatto con i miei compagni, in modo da poterci scambiare le nostre impressioni e ridimensionare la discussione.

*Male dominated left da “Brother” n. 11-12

TU NON SEI MASCHIO! Cronaca di un pranzo in famiglia

Primo gennaio 2018, tutti a tavola pronti per il pranzo, la padrona di casa si occupa del razionamento cibo.

E niente, il dialogo più o meno è stato questo:

Nadia : “Ok allora faccio i piatti”

(n.d..r. Fare i piatti a Napoli vuol dire impiattare il cibo per far si che i conviviali lo consumino, meglio chiarire per chi non è avvezzo alle nostre dialettualità!)

Nadia : “Faccio prima quelli dei maschi che li devo far belli colmi che loro mangiano di più”

A questo punto io intervengo!

Antonio : “No….per me no un piattone strapieno per favore”

Ancora Nadia:

Nadia : “ E chi te lo ha detto che il tuo lo facevo pieno, tu mica sei maschio….”

Di qui poi la mia risposta, pronta ma, forse, non quella giusta:

Antonio : “Giusto!” ma a pensarci meglio avrei dovuto dire “Grazie!”

Di qui poi qualche altra battuta della mia compagna, figlia di Nadia, sul come questa ultima mi avesse squalificato da “maschio” a chissà cosa, battuta ovviamente tesa ad evidenziare il comportamento della mamma che enfatizza, forse troppo, il ruolo del maschio, tutto ciò nonostante sia una donna estremamente emancipata ed aperta rispetto alle coetanee della sua generazione ed a molte donne più giovani di lei.

Ma, ripeto, il mio doveva essere un “Grazie!”, grazie del complimento, anche se detto tra il serio ed il faceto, ma grazie comunque!

Grazie perché mi sento sempre di più non appartenere a quel tipo di “maschio”, quello “alfa” per intenderci, quello che deve mangiare di più perché lui “fatica” di più, perché i lavori pesanti devono essere sostenuti da “tanto cibo” servito dalla donna di casa fino al posto a sedere a tavola ed una volta finito il maschio alfa non deve preoccuparsi nemmeno di portare il piatto sporco nel lavello, guai a lui se pensa addirittura di lavarli i piatti!

Ecco quel “maschio” non mi appartiene, non ha mai fatto parte di me probabilmente e non mi hai mai appassionato sebbene gli input culturali circostanti hanno fatto danni anche alla mia persona, questo lo riconosco.

E non basta “non sentirsi” maschi per dimostrare tutto quello che non si vuole essere, non basta affermare che si vuole mangiare quanto un essere umano normale della mia età a prescindere dal genere e non ingozzarsi come un maiale perché sono “maschio”.

No, non basta per rendersi liberi da questa schiavitù di chi ci vorrebbe così (e badate bene non è Nadia con i suoi piattoni …), c’è tutto un lavoro enorme da fare, di scardinamento di culture, di modi di essere e di parlare, di modelli da distruggere, radere al zero, è un processo che deve passare, necessariamente dalla distruzione del “maschio” per costruirne un altro, fondato su valori completamente opposti.

In questo periodo sto leggendo molto, l’ultimo libro finito è stato quello di Lorenzo Gasparrini “Diventare Uomini”; adesso sono a metà de “L’Antimaschio”, un libro del 1977 ma di un attualità impressionante e con la suprema quanto cruda nei contenuti, prefazione e cura di Stefano Segre che mette completamente a nudo il cosiddetto “maschio”, che sia esso di classe borghese o appartenente alle sinistre più disparate che tanto decantano emancipazione e parità ma poi non ripropongono altro che solo ed esclusivamente i modelli messi in atto dal patriarcato per il mantenimento del potere in millenni di storia dell’uomo.

Ogni pagina de “L’ Antimaschio” è un ceffone, un pugno nello stomaco, ogni passaggio ripropone modelli che sappiamo di adottare ma che, ipocritamente, non vogliamo ammettere che sono sbagliati, in un crescendo di distruzione di tutte le patetiche pantomime maschili, fino ad arrivare alla soglia del ridicolo, fino a far ammettere a coloro con un po di onestà intellettuale : “Il re è nudo”.

Sebbene sia consapevole che il lavoro da fare è davvero tanto, innanzitutto su me stesso e poi nel mondo circostante, questa ultima lettura mi ha portato letteralmente “schifo” e “nausea” per la mia appartenenza a quel tipo di “maschio”, categoria alla quale bene o male e mio malgrado mi si associa e alla quale farò di tutto per non identificarmi più, per smarcarmi incisivamente dall’essere in quel modo; ecco non mi sento più “maschio”, se per “maschio” si intende quel modello, quello che deve ingozzarsi come un maiale per tornare allo scambio di battute iniziali, voglio essere altro, per questo ringrazio ancora Nadia che scherzosamente e forse involontariamente mi ha detto “Tu non sei maschio!”

Troisi e Gasparrini:due facce della stessa medaglia

Tutti conoscono Massimo Troisi, forse non tutti conoscono Lorenzo Gasparrini, blogger, attivista antissessista e dottore in estetica.

Qualche giorno fa mi è capitato di riguardare in TV e per caso “Ricomincio da tre”, il primo film di Massimo Troisi, viceversa e non per caso, in questo periodo ho letto “Diventare Uomini”, un eccellente saggio di Lorenzo Gasparrini che tratta temi come il sessismo ed il patriarcato in modo critico e molto efficace direi, mettendo in evidenza il fatto che nessuno di noi nasce antissessista ma, piuttosto, occorre una presa di coscienza che possa rendere l’uomo libero dai pregiudizi di questo tipo.

Lorenzo parte anche da un presupposto, quello che questo sistema, il quale non si riduce a mero fenomeno sociale, ma sia ben chiaro che si tratta di un complesso sistema di potere anche politico ed economico, sia da disertare perché viste le notevoli pressioni che convergono per mantenerlo in vita, risulta davvero difficile scardinarlo di punto in bianco o con le sole dichiarazione di intenti che lasciano il tempo che trovano per poi trasformarsi in sterili discussioni di metodo.

Occorre, quindi, mettere in campo ed in modo deciso una diserzione dalle regole del patriarcato e del sessismo, che passi dalle pratiche quotidiane, da un uso di un lessico adeguato, da comportamenti e stili di vita utili a questo scopo, insomma qui c’è da mettersi in discussione in maniera radicale e c’è da mettere in discussione il potere ma, facciamo attenzione, non per crearne un altro, piuttosto per costruire un modello di società che si basi davvero su pari diritti e pari opportunità ed eliminare ogni forma di discriminazione delle diversità, principalmente di genere.

Da qui parto per riportare le mie riflessioni sullo stupendo film di Troisi, rivisto con occhi e prospettiva diversa, certamente non solo grazie alla mia raggiunta maturità ma anche grazie alle aperture che ho ricevuto leggendo “Diventare uomini” e questo nonostante io condivida in toto le posizioni espresse nel testo di Lorenzo, tuttavia quello che poi sfugge a tutti, me compreso, è la pratica sul campo.

Molte cose che diamo per scontate e assunte nel nostro modo di pensare e di essere, poi risultano difficili da applicare; un motivo c’è, senza voler cercare alibi di alcun tipo, ma spesso si viene trascinati, anche inconsapevolmente, in modi di fare che risultano essere aderenti alle logiche del patriarcato e di quel sistema di potere, in quanto gli input dell’ambiente circostante sono molteplici e vanno tutti nella stessa direzione, per cui talvolta per trascinamento, altre volte per non perdere privilegi arcaici, ci si lascia portare dalla corrente : il primo passo credo sia ammettere questo stato di cose per raggiungere la vera liberazione da questa schiavitù, perché di questo si tratta per tutti noi, ingabbiati in stereotipi da cui non ci si riesce a liberare in alcun modo, quasi impossibilitati a mostrare emozioni e sentimenti che non siano in coerenza con quel sistema, insomma una vita di merda!

Massimo Troisi era un grande, sullo schermo portava se stesso, la sua timidezza, le sue debolezze (oddio per il macho contemporaneo mostrare le debolezze è improponibile!), la sua condizione di vita inserita nel contesto sociale, in particolare quello napoletano.

Aldilà dei facili luoghi comuni che concorrono a condire la comicità le battute costruite nella sceneggiatura, questa volta mi sono saltati agli occhi alcuni passaggi del film che raccontano di un giovane napoletano che scappa dalla sua città, ovviamente disoccupato (ecco uno dei luoghi comuni….)ma non per emigrare e qui bisogna cogliere il significato, Gaetano scappava da un sistema, quello patriarcale appunto, il quale gli stava stretto, lui che non aveva nessuna caratteristica per esserci dentro preferisce disertare.

Disoccupato e senza reddito, allora figura emergente socialmente, oggi molto diffusa, caratteristica che mette in discussione il ruolo del “maschio” come sostegno economico alla famiglia, una timidezza amplificata talmente tanto da essere confusa con altre e peggiori caratteristiche, molto sensibile tanto da passare per menefreghista perché i metri di comparazione vengono fatti con gli stereotipi diffusi e conosciuti, quasi impossibile pensare che esista altro in questo deserto di umanità, un vero è proprio uomo fuori dal comune.

Ma poi alcune scene memorabili, per esempio quando, dopo aver saputo che Marta è stata con un altro uomo quando già frequentava lui, decide di partire prendendo a pretesto il matrimonio della sorella (di cui parlerò tra un po’) e nello scambio di battute con Marta è emblematico nelle sue affermazioni quando dice che “noi uomini siamo stati cresciuti con il concetto della difesa dell’onore, bisogna salvare la faccia, le corna….”, qui Gaetano pur mettendosi in discussione, pur provando a scappare da questo sistema diabolico, fa fatica perché intorno si parla un altro linguaggio e si rischia di restare in isolamento come accade a tutti quelli coraggiosi come lui.

Oppure la scena nella quale si sforza di non apparire geloso ma poi scappa in bagno per iniziare un monologo dinanzi allo specchio; mi ha colpito per un motivo particolare quando Gaetano, tra una battuta e l’altra, dice a se stesso che così come aveva fatto lei (Marta), poteva fare anche lui, quindi cercare una donna con cui stare insieme in buona sostanza, ma subito dopo e mostrando tutte le sue debolezze da “uomo nuovo” afferma “e io quando la trovo un altra!!”, mettendo in discussione il ruolo del uomo come predatore, scardinando uno dei pilastri dello stesso patriarcato.

Quando raggiunge Napoli per il matrimonio della sorella che si appresta a sposare un militare dei carabinieri (classica situazione per perpetrare i modelli di potere attuali, l’uomo con il posto fisso e la donna a casa buona a fare figli e crescerli) si nota tutta la malinconia di Gaetano quando guarda attraverso il vetro del ristorante e, secondo me, riflette che quella vita non è la sua, quella vita che induce i suoi amici di sempre a portare in bella mostra ortaggi e frutta a mo di simbolo fallico alla sposa, in una apoteosi di significati sessisti a confermare il potere del patriarcato, intanto sullo sfondo il padre di Gaetano che aspetta il “miracolo” che gli consenta la ricrescita della mano, altro tema scottante toccato da Troisi : la religione che viene canzonata e derisa per la sue influenze negative sulle persone.

Il rapporto che la zia, residente a Firenze, porta avanti con un uomo, rapporto non suggellato dal matrimonio e tenuto nascosto dalla stessa al padre di Gaetano perché altrimenti chissà cosa succede.

Nella parte finale vi è l’estrema sintesi della messa in discussione del sistema patriarcale e delle sue pratiche discriminatorie finalizzate al mantenimento di privilegi e potere; negli ultimi minuti del film Gaetano è chiamato a decidere su qualcosa di davvero pesante, Marta è incinta e non sa chi sia il padre del nuovo essere vivente in arrivo ma chiede al suo compagno di esserlo.

Qui c’è uno scontro forte tra i due, per Gaetano sembra qualcosa di inaccettabile, si becca uno “stronzo” da Marta oltre che un ceffone; lui torna sul divano perso nei suoi pensieri, lei prepara la vasca per un bagno rilassante fino a quando Gaetano si alza, va verso Marta e crea una apertura cercando di trattare sul nome con la esilarante scena finale in cui lui cerca di imporre il nome del padre adducendo improbabili questioni di educazione, il tutto finalizzato a cercare di trovare un compromesso digeribile tra quello che aveva già deciso di accettare e le granitiche regole patriarcali, così, nell’ipotesi che fosse stato maschio, avrebbe salvato la linea ereditaria in quel modo, pur accettando, di fatto, la messa in discussione di uno dei cardini del sistema patriarcale, quello della sicurezza della paternità per il mantenimento del potere.

Massimo Troisi era un grande, lo ha dimostrato in diverse occasioni e forse, nel suo film più gettonato e più bello in assoluto, ci voleva dire proprio quello che oggi Lorenzo Gasparrini tenta di dirci con il suo “Diventare Uomini”; occorre disertare il patriarcato, occorrono nuove pratiche, occorrono nuovi equilibri affinché ci possiamo sentire tutti più liberi e se davvero “il personale è politico” il mio consiglio è quello di leggere il libro di Lorenzo : “Diventare uomini”, magari insieme agli oltri ottimi testi a cui fa riferimento e, perché no, rivedere “Ricomincio da tre” ottimo spunto per mettere in discussione un sistema opprimente per tutti.

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